Giosuè Boetto Cohen
Le qualità del motore e l’agilità del telaio della Dino 206 S erano amate dai suoi piloti e ammirate dagli avversari. Il modello di cui vi parliamo, dopo 50 anni e una storia molto accidentata, è tornato a casa per un completo restauro dalle capaci mani dei tecnici del reparto Classiche
E’ il pomeriggio del 5 giugno 1966, quando cala il sipario sulla 1000 chilometri del Nürburgring. Le due Dino di Scarfiotti-Bandini (numero 11) e Rodriguez-Ginther (numero 12) sono sul podio, dietro alla Chaparral di Jo Bonnier e Phil Hill. Il V8 americano da 420 cavalli, duecento più del V6 di Maranello, ha saputo infliggere solo quarantadue secondi di distacco al secondo arrivato. In una gara durata sette ore.
Dopo la premiazione, Eugenio Dragoni respira l’aria incredula delle altre scuderie, che hanno assistito da lontano alla splendida prova delle Dino. “Qualcuno vuol far verificare il motore? – domanda il direttore sportivo - perché se no, lo faccio fare io”. La verifica, alla fine, ha luogo per desiderio Ferrari: 86x57 per cilindro, cilindrata unitaria 331,10, cilindrata totale 1986,60. I conti tornano.
Non tutte le gare a cui le 206 S hanno preso parte, tra il 1966 e il 1968 sono andate così lisce, ma la memoria complessiva che la Dino lascia è quella di una vettura competitiva, resistente, con un motore affidabile e potente. E, come se non bastasse, bellissima.
La 206 S protagonista di queste pagine è una delle ultime costruite, telaio numero 026 e vide la luce a Maranello all’inizio del ’67, un anno dopo i fatti del Nürburgring. Telaio e il motore erano pronti in officina, “imbastiti” provvisoriamente in attesa dei battilastra. Si dice che gli artigiani della carrozzeria Drogo erano arrivati alla Ferrari per plasmare la pelle di alluminio, portandosi tutto da casa. Una volta eseguiti e provati tutti i pezzi, la meccanica sarebbe stata nuovamente smontata per ultimarne la messa a punto.
Dopo le ultime verifiche, la 026 fu consegnata alla Scuderia Filipinetti di Ginevra e in marzo era già a Sebring. La 206 non ebbe fortuna, con Klas e Müller costretti al ritiro. Tornata in Europa ebbe il motore aggiornato, si presentò al Nürburgring, dove la coppia Guichet-Muller nei giri di prova, dovette nuovamente rinunciare per un incendio. Motore e abitacolo furono danneggiati.
E qui la “nostra” scese un poco nell’ombra, accolta nelle condizioni in cui era, nella prestigiosa collezione Bardinon. E lì, senza più muoversi, fu custodita per oltre un decennio.
All’inizio degli anni ’80 fu acquistata da un collezionista italiano e tornò a casa. Fu oggetto di un primo restauro che le permise di tornare in pista, in competizioni a quel punto riservate alle vecchie glorie. Dal ’97 al 2008 la 026 si trasferì in America, passando di mano tre volte e cambiando indirizzo, per la penultima volta, nella provincia canadese dell’Ontario. Nel 2015, infine, il viaggio dai Grandi Laghi alle insenature di Pebble Beach per l’asta di Gooding, che grazie a un’offerta vincente di 2.3 milioni di dollari l’ha messa nelle mani del suo attuale proprietario.
Nel 2019 la vettura è arrivata al reparto Ferrari Classiche per un restauro completo che si è concluso quest’estate. L’accettazione, a detta dei dottori che l’anno presa in cura, è stata fatta “in codice verde”. Questo non vuol dire che la terapia a cui è stata sottoposta non abbia previsto, subito dopo una ricognizione esterna, lo smontaggio nuts and bolts di ogni componente. Il processo più lungo di ogni restauro.
La carrozzeria, in particolare, denunciava zone di invecchiamento e deperimento di alcune superfici, che sono state in parte ricostruite. Motore e cambio, invece, erano in buone condizioni generali. Il propulsore è un V6 a due valvole per cilindro con l'iniezione indiretta Lucas. Il motore Dino competizione quindi è assai diverso dai suoi fratelli montati sulle GT Ferrari e Fiat, pur rispettandone l’architettura di base (65 gradi-V6). Le teste, oltre alle valvole supplementari, ospitano una doppia camera di accensione, con due candele, collegate a due bobine separate ma un unico spinterogeno. L’insieme consente regimi molto più elevati (9000 rpm) e potenze del 40-50% superiori.
Il telaio della 206, come in altri modelli dell’epoca, costituisce parte del circuito di raffreddamento olio e acqua, collegando con alcuni dei suoi tubolari il motore ai radiatori anteriori. Anche gli interni sono stati restaurati, ma la base di partenza era buona con tutti gli strumenti corretti.
Alla fine di maggio 2020, completati gli interventi maggiori, il motore della 026 è stato avviato per la prima volta. La procedura è delicata e prevede di far girare il motore con uno starter, ma con i contatti elettrici spenti. Questo per poter controllare sul manometro olio che la pressione idraulica sia presente e in crescita, senza rischiare danni se per caso ci fossero delle ostruzioni. Il V6, peraltro, era già stato testato al banco prima dell’impianto in vettura, per la misurazione delle curve di potenza.
Alla fine dell’estate 2020, dopo una serie di prove dinamiche sulla pista di Fiorano, la 026 è stata consegnata ai suoi proprietari e presto farà il suo debutto in società.